30 gennaio 2010

La principessa e la macchia d’inchiostro
di Susanne Portmann

Nei giorni della rivolta di Rosarno e del terremoto di Haiti sono andata a rileggermi “Milena”, il libro di Margerete Buber-Neumann sulla giornalista e scrittrice ceca, Milena Jasenská, conosciuta e morta nel campo di concentramento di Ravensbrück nel 1944, a 48 anni.
Scoprii questo libro una sera guardando “Apostrophes”, la celebre trasmissione di François Pivot. L’ospite di Pivot quella sera era appunto Margerete Buber-Neumann, che era stata la compagna di Heinz Neumann, leader del partito comunista tedesco. Al suo fianco, nel 1935, aveva dovuto fuggire a Mosca ma a Mosca, lui era finito davanti al plotone d’esecuzione, durante le purghe staliniste nel 37. Lei, etichettata dai comunisti di Stalin come “elemento socialmente pericoloso”, era stata deportata in Siberia, e poi, nel 1940, era stata consegnata dai sovietici ai nazisti che la internarono nel lager femminile di Ravensbrück.
E fu a Ravensbrück che Margerete divenne amica di Milena, l’amante di Kafka, la destinataria delle famose lettere dello scrittore praghese. Era stata Milena ad avvicinare Margerete, proprio perché voleva sapere da lei, se erano vere quelle voci che correvano, che l’Unione Sovietica aveva rispedito a Hitler dei militanti antifascisti emigrati Russia. Una verità dura da digerire, anche dopo la guerra. La Buber-Neumann, infatti, nel 1947 a Parigi, testimoniò al “processo del secolo”, contro il settimanale del partito comunista francese “Les Lettres Françaises” a favore di Viktor Andreevič Kravčenko, autore del libro “Ho scelto la libertà”, una forte denuncia dei Gulag, un mentitore e una spia dei capitalisti, per i comunisti.
Rileggere “Milena” mi ha riportato alla sensazione che vissi la sera della trasmissione, di un momento in cui qualcosa cambia, perché i sentieri battuti si sono rivelati tutti ingannevoli. E alla successiva lettura del libro della Buber-Neumann, oltre a dover prendere definitivamente atto della dimensione della tragedia della complicità tra nazismo e comunismo - che ambedue le donne avevano sperimentato sulla propria pelle (per Milena erano “vini della stessa botte”) - cambiò misura e prospettiva anche il mio infinito amore per Kafka, dal momento che alle insuperabili lettere dello scrittore, si accostarono le poche di Milena indirizzate a Max Brod, dove lei, dell’uomo Kafka e della sua “angoscia” insita nel suo rapporto con le donne, oltre che della propria impossibilità di vivere l’amore per lui, scrive la propria visione:
«So fino all’ultimo nervo in cosa consiste la sua angoscia. Questa c’era anche prima di me, quando egli ancora non mi conosceva. Ho conosciuto la sua angoscia prima di conoscere lui. Comprendendola mi sono corazzata contro di essa. Nei quattro giorni i cui fu con me, Frank [Milena così chiamava Kafka] l’aveva perduta. Ne abbiamo riso. So con certezza che nessun sanatorio riuscirà mai a guarirlo. Egli non sarà mai sano, Max, fintanto che avrà questa angoscia. E nessuno corroborante psichico può superarla poiché l’angoscia ostacola l’azione corroborante. Quest’angoscia non si riferisce soltanto a me ma a tutto ciò che vive spudoratamente, anche, per esempio, alla carne. La carne è troppo scoperta, egli non ne tollera la vista. […] Se allora fossi venuta con lui a Praga, sarei rimasta per lui quella che ero. Io invece avevo i piedi ancorati saldissimamente in terra viennese, non ero in grado di abbandonare mio marito e forse ero troppo donna per trovare la forza di assoggettarmi a una vita che sarebbe stata, sapevo bene, la più rigorosa ascesi fino alla morte. Dentro di me c’era un desiderio folle di una vita tutta diversa da quella che faccio e che forse non farò mai, di una vita con un bambino, di una vita che sia molto terra-terra. E questo sentimento infine in me ha vinto su ogni altra cosa, sull’amore, sul fascino di una vita aerea, sull’ammirazione e, ancora, sull’amore. […] e poi era anche già troppo tardi. Questo conflitto era divenuto in me già troppo evidente e questo lo ha spaventato. Perché è precisamente contro questo che lui lotta, da sempre, ma dall’altra parte della barricata. Di seguito la sua angoscia è tornata, si è insinuata tra noi. […] ero troppo debole per fare, realizzare l’unica cosa che, lo sapevo, lo avrebbe aiutato. Ed è colpa mia. E anche lei sa che è colpa mia. […]. Le donne che lo hanno incontrato erano donne comuni che sapevano vivere, appunto, solo come donne. Credo infatti che sia il mondo tutto intero, tutti gli esseri umani ad essere malati e che lui sia l’unico ad essere sano, l’unico che comprenda, a sentire come conviene, il solo essere puro. So che lui non si difende contro la vita, ma solo contro questo tipo di vita. Se io fossi stata capace di partire con lui, avrebbe potuto vivere felice con me. Ma tutto ciò, lo so oggi. Allora, ero una donna comune, come tutte le donne del mondo, una piccola donna prigioniera dei propri istinti. Ed è questo che ha suscitato la sua angoscia. Era fondata». (Lettera 5 del 1921, in Franz Kafka, “Lettere a Milena”, Oscar Mondatori, 1988, 273-4 e B-N, 98-100)
Milena scrisse questa lettera in ceco, ed è difficile capire cosa intendesse veramente definendosi una donna “ordinaria” (come troviamo scritto nella traduzione francese) o “comune” (in quella italiana). Perché Milena Jasenská ordinaria o comune non lo fu davvero mai.
Al momento in cui visse la sua storia con Kafka aveva 24 anni. Si era sposato con Ernst Polak contro la volontà del padre due anni prima ed era andata a vivere con il marito a Vienna. Jan Jesensky, il padre, emerito chirurgo maxillo-facciale, patriota ceco conservatore, antisemita e membro della più esclusiva società praghese, pur di impedire il matrimonio della figlia con un ebreo, l’aveva fatto rinchiudere per mesi nel manicomio di Velenslavin, con la “diagnosi” di “mancanza patologica di senso della morale”. Quando alla fine si era comunque arrivati alle nozze le aveva negato ogni aiuto economico.
Che Polak poi, a Vienna avesse fatto vivere Milena solo una vita di stenti, che l’avesse anche tradita con quattro amanti contemporaneamente, è sorte questa forse sì “comune” e “ordinaria” di molte donne e non solo dell’epoca. Parlando degli uomini che aveva conosciuto, Milena confidò alla Buber-Neumann: «È stato sempre il mio destino di non aver potuto amare che uomini deboli. Nessuno di loro ha mai provveduto a me, o mi ha anche semplicemente vezzeggiata. È questa la punizione in cui incorrono le donne se hanno troppa iniziativa, cosa che gli uomini amano solo per poco tempo, persino quelli deboli. Dopo una donna indipendente ne cercano un’altra del tutto diversa, una bambolina fragile che tiene il broncio, si siede sul divano con le mani sulle ginocchia e li guarda con ammirazione. La maggior parte delle donne che hanno preso il mio posto erano di questo genere. Ed è sempre stato così che ho visto trasformarsi miracolosamente i mei uomini, sprovvisti di ogni senso pratico e immaturi – ma tutti tanto spirituali. Per le loro nuove compagne, dopo, salivano correndo le scale, a trovare appartamenti, correvano da un ufficio all’altro, si procuravano documenti, scrivevano lettere ufficiali. Cominciarono persino a guadagnare dei soldi». (B-N,117-118)
Cosa poteva fare Milena a Vienna, in una città a lei straniera, lei che ancora masticava poco il tedesco, rinnegata dal padre e costretta a guadagnare lei da vivere per se e per il proprio marito, troppo indaffarato, lui, a tradirla e a seguire le elucubrazioni del “circolo di Vienna”? Cosa poteva fare per rendersi indipendente e uscire dall’umiliazione e della solitudine che finirono per portarla anche alla cocaina, di cui del resto tutti facevano uso nei circoli viennesi degli intellettuali e degli scapigliati? Non avendo una formazione completa (solo per qualche tempo aveva fatto studi di medicina costretta dal padre), finì per accettare qualunque lavoro le potesse capitare e quello che le capitò più spesso fu quello di portabagagli alla stazione ferroviaria. Diede lezioni di ceco, iniziò a fare delle traduzioni dal tedesco al ceco e cominciò a scrivere brevi saggi e articoli che riuscì a pubblicare su un giornale ceco.
Milena nella sua giovinezza praghese come del resto anche nei suoi successivi anni viennesi conobbe di persona gran parte degli scrittori del suo tempo. Era un’osservatrice eccezionale della società in cui viveva, era colta e di finissimo intuito psicologico e letterario. Tutte caratteristiche che poi le permisero di farsi luce come giornalista.
Fu lei la prima a capire il genio profondo di Kafka. Lo aveva incontrato a Praga frequentando i circoli letterari, ma lesse le sue prime novelle solo nel ‘20 a Vienna, dopo aver imparato il tedesco. E fu lei la prima a tradurlo in ceco, portando con caparbietà fino in fondo quella che era una vera e propria impresa. Perché - spesso lo si scorda - Kafka nella sua Cecoslovacchia era uno scrittore sconosciuto, proprio perché aveva sempre scritto nella lingua tedesca ed era parte, come Rilke, del fenomeno della letteratura tedesca praghese, creata da artisti che finirono per essere quasi stranieri nella propria patria, nel silenzio e nell’assenza di qualsiasi accoglienza da parte dei propri connazionali cechi.
Milena, in un suo articolo, parlando di Kafka, dice: “Credo che l’uomo migliore che abbia mai conosciuto, fosse uno straniero che ho spesso incontrato in società.” (B-N, 85). Straniero, nella società praghese, Kafka, in effetti, lo era doppiamente, in quanto scrittore tedesco e in quanto ebreo. Ma non meno di Milena che, figlia ribelle all’autoritarismo del padre antisemita, era finita nel suo misero esilio privato a Vienna.
La profonda capacità di Milena di comprendere l’opera di Kafka e l’angoscia di Kafka come uomo si potè basare sull’affinità delle loro storie personali, caratterizzate entrambe da un duro conflitto con un padre autoritario. Milena, ribellandosi al padre, era finita a essere una sposa infelice, ma era riuscita a sfuggire un padre che l’aveva dichiarata pazza e rinchiusa in manicomio. A Vienna, nel 1922, la sua situazione materiale e psicologica era drammatica. Ma innamorandosi di Kafka rischiò tutto: perché con quest’amore, per la somiglianza delle loro due storie, corse il rischio di identificarsi in tutto con l’uomo che, da scrittore geniale riuscì sì a dare al proprio conflitto con il padre espressione umana universale, ma che sul piano personale - trattandosi appunto non solo di conflitto con il padre “esteriore”, ma anche di conflitto con una dimensione interiore complice - lo aveva tramutato in malattia fisica mortale. E a proposito del conflitto di Kafka con il padre, forse non è futile chiedersi perché Kafka, ben essendo madrelingua tedesco e ben raggiungendo una prosa tedesca che tuttora attende rivali, diceva di amare di più il ceco. Il padre di Kafka, in fin dei conti, era la metafora della decrepita società aristocratica-cattolica-asburgica (di lingua tedesca) che già da tempo aveva dato la nascita al suo figlio più terribile: Adolf Hitler.
Milena (la ceca) si salvò dal suo innamoramento per Kafka, pur vivendo i due anni che seguirono ammalata gravemente anche lei nel fisico e sull’orlo del suicidio. A suo dire si salvò perché era “ordinaria” o “comune”, perché “troppo donna” e per la sua “nostalgia di una vita con un bambino, terra-terra”. Noi diciamo che si salvò per la vitalità che Kafka ben seppe riconoscere in lei, ma anche per l’intelligenza che direttamente scaturiva da questa sua vitalità e che, solo dopo la storia con Kafka, si palesò nelle scritture di Milena.
Uscì dall’amore per Kafka, dal suo matrimonio e dalla miseria viennese diventando, come dice la Buber-Neumann, “creativa”, scrivendo da giornalista e come tale venne presto riconosciuta. Scrisse come corrispondente estera per i giornali praghesi più autorevoli. E Kafka a Praga leggeva questi articoli, “contro le stazioni balneari tedesche” o dove parlava “della felicità di passare l’estate lontano delle ferrovie”, articoli magari di moda e di costume, sì, ma che in realtà sono affreschi pieni di osservazioni personalissime, racconti veri e propri. Kafka, a proposito di uno di questi pezzi, scrisse che gli aveva fatto «l’impressione di un gigante che impedisce, allargando le braccia, al pubblico di arrivare sino a te [Milena]». (B-N, 111).
Milena scriveva bene, e negli anni che seguirono si guadagnò sempre da vivere scrivendo, perché tutti i direttori di giornali cechi, di qualsiasi orientamento politico, sapevano quanto valeva la sua firma. Fece ritorno a Praga da giornalista affermata e alla fine stimata persino dal padre, in una città profondamente cambiata, meno provinciale, e dove della sua vecchia cerchia di amici bohèmien molti già erano divenuti comunisti, come il secondo marito di Milena, l’architetto Jaromir Krejcar, che lei sposò nel 1927 e da cui ebbe la sua bambina, Honza.
E anche Milena divenne membro del partito comunista ceco. E soltanto questa sua militanza comunista che durò cinque anni riuscì a soffocare la sua scrittura. Dice a proposito la Buber-Neumann: «A Ravensbrück lei mi ha confessato che aveva quasi completamente persa la capacità di scrivere quando militante nel partito. All’inizio si era sforzata di convincersi che il partito era il solo detentore della verità, ma aveva trovato ben presto insopportabile dover ripetere incessantemente nei suoi articoli le parole d’ordine del PC o essere costretta comunque a parafrasarle». E il partito sopportò a lungo lo scrivere non ortodosso di Milena. «Il che si spiega [dice la Buber-Neumann], da una parte per la particolarità del partito ceco, dove sino agli anni trenta, esisteva ancora una cosa come la “solidarietà tra bohèmien” – fenomeno da molto tempo impossibile in altri partiti comunisti. Non bisogna dimenticare che questo partito, contava tra i suoi membri, ad esempio, un Jaroslav Hasek, l’autore del “Buon soldato Svejk” – un anarchico, […] un uomo che se ne fregava della “linea politica” e che prendeva in giro tutti e tutto. Milena era una figura della bohème e per tale ragione la si amava, la si trattava con indulgenza. Può darsi anche che le si lasciasse un margine di libertà perché veniva dalla stampa borghese e ci si proponeva, attraverso di lei, di stabilire qualche contatto con i circoli intellettuali che lei frequentava». (B-N, 131)
Milena fu espulsa dal partito nel ‘36, anno in cui divorziò anche dal secondo marito che, due anni prima si era trasferito a Mosca e poi era riuscito a far ritorno a Praga nel ’37 (con una nuova moglie russa). Nessun compagno ceco ha mai risposto alle lettere che Krejcar scriveva da Mosca, in cui raccontava come stavano andando le cose sotto Stalin.
Milena, in conseguenza di una grave malattia che aveva contratto durante la gravidanza e che le deformò a sempre una gamba, era diventata anche morfinomane. Ma ancora una volta si risollevò, da un matrimonio fallito, dalla malattia, dalla droga, dal disinganno per il comunismo: salvò la propria scrittura, realizzando infine la sua vera identità di grande giornalista politica, di rara chiaroveggenza storica. Ed è anche questo tratto di Milena giornalista politica, che ci restituisce la Buber-Neumann: Milena Jasenská, fino alla fine morte adoperò la sua penna a favore degli ebrei, per l’indipendenza della patria, contro i nazisti e contro lo spettro di una futura (e da lei prevista) dominazione sovietica.
Nel lager di Ravensbrück, in quanto oppositrici anche del regime sovietico, tra prigioniere comuniste fanatiche loro assolutamente nemiche, Milena e Margerete condussero una vita doppiamente assurda, oltre che infernale.
“Milena” della Buber-Neumann, è opera che, come quelle di Primo Levi, raccontando verità storiche senza alcun filtro di finzione, letterariamente non è ben classificabile: libri-testimonianza, si usano definire, senza accordar loro pieno titolo di letteratura. E Milena stessa raramente viene ricordata come scrittrice. È rimasta famosa come l’amante di Kafka. E lei soffriva per non aver scritto un libro “vero”, disse di sé di non essere stata mai capace di scrivere altro che lettere d’amore. A lei “una stanza tutta per se” che le avrebbe permesso di scrivere cose “vere”, non era bastata. Lei voleva una casa, una vita tutta per se e quindi si guadagnò la vita scrivendo, perché un compromesso-sacrificio alla Emily Dickinson, di vita per la poesia, per Milena sarebbe stato un vigliacco fallimento.
La Buber-Neumann racconta che nel lager, con Milena si scrivevano ogni giorno, rischiando di essere uccise. Le due amiche avevano deciso anche di scrivere un “vero” libro assieme, appena sarebbero uscite dal campo, e per il quale Milena (che “non sapeva resistere a un foglio bianco”) aveva persino steso la prefazione. Milena amava tanto la poesia, ma era convinta che solo “una prosa sobria aveva ancora titolo di esistere” e per lei non c’era niente che sorpassasse la prosa di Kafka.
E infine la Buber-Neumann ci racconta anche che un giorno, Milena le dette da leggere un racconto che aveva scritto per lei, intitolato: “La principessa e la macchia d’inchiostro”.
Privati per sempre di questo racconto – Milena morì il 15 maggio del ’44 - possiamo raccogliere tuttavia nel titolo il verso poetico che in sé racchiude, per una splendida immagine, la figura e la vita di Milena Jasenská tutta, di donna straordinaria e di scrittrice.
Per Margerte Buber-Neumann, scrivere questo libro su Milena deve aver rappresentato un’impresa infinitamente dolorosa. Averla compiuta comporta per noi il dovere di un riconoscimento. Non sempre i nostri libri preferiti sono bei romanzi o poesie. Talvolta sono libri scritti col sangue vivo e che ci hanno spiegato della vita, degli uomini e della storia, molto più di mille libri - di storia, di psicologia, di filosofia e di letteratura - messi assieme.

Jana Černá, detta Honza, la figlia di Milena, divenne scrittrice anche lei. Attivista del dissenso praghese, morì nel 1981, a 53 anni, in un incidente di macchina.
Margerete Buber-Neumann è morta il 6 novembre del 1989, tre giorni prima della caduta del muro.
L’èdizione originale tedesca di “Milena” è del 1977. Adelphi ha pubblicato la traduzione italiana nel 1986. Le mie traduzioni si basano sull’edizione francese, Du Seuil, 1986.

Ringrazio di cuore Fulvio Jannaco per l’editing del testo.